Viviamo in un tempo in cui raccontarsi è diventato facile — forse troppo facile.
Basta uno smartphone, una foto, una manciata di parole.
Ogni giorno milioni di persone condividono frammenti della propria vita sui social: istanti isolati, filtrati, pensati per ottenere reazioni. Eppure, dietro quell’apparente libertà di espressione, si nasconde spesso una forma di narrazione impoverita, che parla molto ma ascolta poco, che mostra ma non elabora.

In psicoterapia, invece, raccontarsi è un atto profondo, lento, trasformativo. Non serve per piacere a nessuno, ma a ritrovarsi.

Perchè narrarsi in modo adeguato è terapeutico?

Da sempre, l’uomo usa le storie per dare senso al mondo. Ogni strumento espressivo è usato per raccontare storie.
In psicologia, autori come Jerome Bruner e Dan McAdams hanno mostrato come la mente umana sia strutturata narrativamente: pensiamo per storie, e da esse ricaviamo identità, coerenza, direzione.

Quando una persona attraversa un trauma, una perdita o una crisi, la propria narrazione di sé si frammenta. Questo vuole dire che gli eventi diventano punti isolati, senza un filo conduttore. Piccole foto che contengono un pezzo di sè stessi che però non si collega alle altre foto di noi.
Il lavoro terapeutico serve proprio a ricucire quel filo: costruire una trama che accolga anche il dolore, ma gli restituisca significato.

La psicoterapia narrativa, utilizza proprio il racconto come strumento per mettere ordine nel caos dell’esperienza, comprendere le emozioni sottostanti, scoprire risorse e valori che erano rimasti silenziosi, soprattutto riscrivere la propria storia da protagonista, non da spettatore.

Questo processo può passare anche attraverso la raccolta, la scelta e l’analisi di immagini: fotografie personali, carte evocative come le Dixit, collage o linee del tempo visive. L’immagine diventa una chiave che apre porte chiuse: aiuta ad accedere a ricordi impliciti, emozioni non dette, parti di sé dimenticate. ogni senso stimolato e integrato nel racconto fa in modo che la persona non si limiti a raccontare la propria storia, ma la re-immagini, la rilegge con occhi nuovi.

Narrare ed esporsi in terapia è un raccontarsi, non un mostrarsi.

Quello a cui ci hanno abituato i social, invece, è una forma di narrazione personale che si appiattisce sulla superficie. La vita diventa una sequenza di immagini scollegate, spesso scolpite per piacere agli altri più che per esprimere sé stessi. Non c’è spazio per la complessità, per le zone d’ombra, per le contraddizioni che fanno parte di ogni identità autentica.

Mentre la narrazione terapeutica integra, quella social tende a frammentare. Una foto condivisa può generare approvazione istantanea, ma raramente favorisce consapevolezza. È un racconto esposto, non protetto; una vetrina, non un percorso.
Nel contesto terapeutico, invece, la narrazione si svolge in un ambiente sicuro, contenitivo, non giudicante dove lo sguardo del terapeuta non valuta, ma accompagna.

Potremmo dire che raccontarsi sui social è un atto pubblico, mentre raccontarsi in terapia è un atto intimo, relazionale e trasformativo.

Nel primo caso si cerca conferma esterna, si utilizzano immagini scelte, si misura il consenso. Nel secondo, si crea integrazione interna, si affrontano anche le immagini che si volevano stracciare e si cerca un grado di autenticità maggiore.
In questo processo, il terapeuta, accompagna la persona nel passaggio dal linguaggio del dolore a quello del significato, dalla frammentazione alla coerenza, dall’immagine al simbolo. Questo avviene in un setting, ovvero uno spazio che garantisce che il percorso abbia una cornice, un ritmo, un senso di continuità. Quegli stessi elementi che la comunicazione digitale spesso dissolve.


Raccontarsi online può essere un gesto di creatività, ma non è di per sé guarigione.
La vera trasformazione nasce quando una narrazione non cerca spettatori, ma comprensione.
In un’epoca di esposizione costante, riscoprire il valore del racconto interiore — quello che si costruisce lentamente, dentro una relazione terapeutica — è forse uno degli atti più rivoluzionari che possiamo compiere.

“Non tutto ciò che si mostra è autentico. Ma tutto ciò che si elabora, può diventare vero.”

DOLCE ROSSELLA
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